«La nozione poetica di condizione umana in molti paesi non esiste. Ricordo di quando ero detenuto in uno dei primi istituti di massima sicurezza, una di quelle strutture in cui prevale la vendetta statale sulla giustizia: per due anni ho vissuto in un buco, e ricordo che mi sputavano e orinavano addosso», raccontò una volta Luis Sepulveda anni fa durante un convegno organizzato nel carcere di San Vittore. Un dibattito, pensate un po', che prese spunto da "Colors, dietro alle sbarre", l’ultimo numero della oramai scomparsa rivista Benetton quando aveva sguinzagliato i suoi giornalisti a visitare 14 prigioni in altrettanti paesi, dove ben oltre 8 milioni di persone sono detenute.

Erano gli anni nei quali, a sinistra, ancora resisteva quella cultura - ora sempre più minoritaria - che era volta ad abbattere la visione carcerocentrica. E chi meglio poteva rappresentarla, se non uno come Sepulveda, colui che ha conosciuto le prigioni dopo il colpo di stato di Pinochet? Arrestato, torturato e poi costretto all'esilio. Oggi sappiamo che ha perso la vita a causa del covid 19, o più semplicemente chiamato coronavirus. Ma Sepulveda, si sa, è morto tante volte. La prima quando il Cile fu stravolto dal colpo di Stato; la seconda quando lo arrestarono; la terza quando imprigionarono sua moglie Carmen ; la quarta quando gli tolsero il passaporto.
Non fu un semplice golpe, fu un assedio. Sepulveda faceva parte della guardia personale di Salvatore Allende. Quel giorno si trovava a una trentina di chilometri da Santiago. Era addetto alla sicurezza delle acque pubbliche e doveva difendere le fonti di approvvigionamento. Per ben quattro volte, infatti, la milizia di Pinochet aveva tentato di avvelenarle. Per reagire all'assedio cercò di organizzarsi con altri suoi compagni. Ma nulla da fare. Venne arrestato proprio il giorno del suo compleanno, il 4 ottobre del 1973. L'accusa che gli mossero fu alto tradimento della patria e banda armata. Fu torturato, processato e condannato alla pena capitale. Il suo difensore era un tenente dell'esercito. Alla fine gli disse che era riuscito a trasformare la condanna a morte in 28 anni di carcere. Come direbbe l'ex ergastolano Carmelo Musumeci, è meglio la pena di morte che "la pena di morte viva". Subire 28 anni di carcere, vuol dire spegnersi ogni giorno e diventare semplicemente dei "morti viventi".

Sepulveda ha sempre detto che la scrittura è un atto di resistenza. In effetti per lui non solo l'aiutò a resistere, ma anche ad ottenere la libertà. Accadde infatti che il suo insegnante di liceo mandò una sua raccolta di racconti a un premio cubano. Sepulveda non pensava assolutamente di diventare scrittore. Ma accadde che due di quei racconti furono pubblicati e poi tradotti in tedesco. Anni dopo, una ragazza di Amnesty vide il suo nome su una lista di cileni condannati e l'associò all'autore di quei due racconti che aveva letto. E fu così che in Germania e in parte del resto d'Europa ci fu una mobilitazione nei riguardi di Sepulveda che si concluse con la sua scarcerazione e l'espulsione dal Cile nel 1977. La scrittura lo aiutò ad evadere dalla prigione.
Sepulveda è morto tante di quelle volte che ci avrà fatto l'abitudine. Come lui stesso disse tanto tempo fa, non smetterà di vivere perché «c'è sempre un pezzo di esistenza oltre il racconto, oltre le storie, oltre la letteratura».
Damiano Aliprandi
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